martedì 21 novembre 2023

Alle donne vittime di mariti violenti posso solo dire: SALVATEVI!

Penso che ogni giorno dell'anno dovremmo ricordare le donne che subiscono violenza.
Da figlia di una donna che di botte ne ha subite, e tante, sono sicuramente una delle migliori testimoni del dolore che vivono I figli di fronte ad un orrore che non possono proprio comprendere.
Avevo solo tre-quattro anni. Ricordo che quando in casa si scatenava la tempesta (molto spesso per futili motivi) mi nascondevo sotto il tavolo della cucina e piangevo per le urla crescenti dei miei genitori, seguite da schiaffi, pugni, graffi e occhi neri. Il cuore mi batteva forte. Credevo di morire. Credevo che mia mamma morisse.
Ogni tanto, sempre mia mamma, scappava di casa con me in braccio. Mio padre le diceva: usi la bambina per proteggerti, quando in realtà era lei a proteggere me. A volte correvamo all'impazzata per le scale, a volte qualche vicino benevolo ci apriva la porta e ci offriva protezione. Ho un elenco infinito di tragici fotogrammi e brutte figure (mi vergognavo da morire per la platealità della mia pazza famiglia) da riempire un libro.
Ne parlo poco e non ne scrivo mai perchè rispolverare questi ricordi mi riapre ferite immense e mi fa piangere, ma è giusto che chi è testimone di quel vissuto ne parli e lo racconti per contribuire a diffondere una coscienza nuova.
Alle donne che subiscono violenza, alle madri, dico: denunciate, pensate a voi, ai vostri figli; fuggite il più lontano possibile perchè quelle tempeste, quegli uragani improvvisi e violentissimi rimarranno per sempre incisi nelle menti e nei cuori dei vostri bambini rendendoli insicuri e fragili.
Ogni volta che ripenso a quei momenti è come se la mia infanzia si fosse fermata là: congelata, addirittura cancellata da quel dolore immenso, da quel primo pugno irrispettoso dato a mia madre davanti ai miei occhi di bimba, da quelle paure che io ho poi tradotto in una sensibilità eccessiva e dolorosa, in una maniacale attenzione al minimo rumore, cambiamento di voce, umore, sguardo di mio padre o di mia madre: un'allerta continuo col cuore in gola e le orecchie tese, che mi ha dilaniato l'anima.
E ci sono voluti anni, uomini buoni, tanto amore e tanto perdono da parte mia per restituirmi serenità.
Gli uomini vanno, I figli restano e valgono più degli abbracci al veleno dei vostri violenti mariti quando, in ginocchio, verranno a chiedervi perdono.

SALVATEVI. SALVATELI.
L'AMORE E' UN'ALTRA COSA!

P.S. mio padre non beveva, socialmente era una persona gentile e divertente, non mi ha mai picchiata. Non so perché mia madre gli scatenasse tutta quella rabbia e perché pensasse che una donna, la sua donna che tanto amava, meritasse quel tormento. 
È morto prima che avessi l'età per chiederglielo e questo proprio non riesco a perdonarglielo.


lunedì 3 aprile 2023

Ciao Penelope Please ❤️



Leggo i tanti commossi commenti di chi ha conosciuto Marco Marras Casu, in arte Penelope Please, miss Drag Queen 2020 e personaggio dalla battuta caustica e tagliente. 


Nei ricordi di chi ha avuto il piacere d'incontrarlo emerge prepotente un dato: Marco aveva il dono di colpire al cuore. Dietro al trucco, dietro alle parrucche bionde, dietro alle tette finte e ai vertiginosi tacchi che indossava con estrema (e da me invidiata) disinvoltura tutti, ma proprio tutti, intravedevano la persona, la sensibilità e in qualche modo ne intuivano la fragilità. 


Penelope l'irriverente, quando saliva sul palcoscenico da soubrette spumeggiante dietro uno scudo di cerone e paillettes, lanciava frecciate a raffica ma insieme ad esse, trasportate da un'energia parallela di cui non era assolutamente consapevole, scoccava piccole frecce intinte nell'oro che ci colpivano al cuore lasciandoci dentro gocce della sua parte più vera. Lo ricorderemo per questo, non per i glitters o per le piume di struzzo.


Con Penelope sui tacchi e con Marco in sneakers ho parlato spesso e ogni volta, pur senza mai entrare nei dettagli, ho percepito quel di più: un terreno minato sul quale camminare con estrema circospezione e un background di storie andate storte che, anche se diverse, ci accomunavano in un non meglio precisato disagio. Eravamo dei sopravvissuti che si riconoscevano in un abbraccio sincero. Io per te ero anche la giornalista, la mamma di "un musicista straordinario" e la sorella di un "grande tatuatore". Mi presentavi così alle altre persone.


Abbiamo parlato più volte di case nuove, di traslochi imminenti, di arredi pacchiani, di feste faraoniche e di format teatrali da riproporre. I progetti erano tanti e non li dimentico. 

Nel momento doveroso del silenzio, a sipario chiuso, posso solo farti una promessa: in qualche modo, non so su quale palco e non so quando, tu risalirai.


Ciao splendida creatura. E ti prego...fai sorridere la mia mamma. 

venerdì 21 ottobre 2022

Prima del temporale





L'incertezza di questo cielo carico di pioggia mi invade dolcemente e mi fa sentire a casa. 

Il suo colore indefinito e le nuvole a chiazze, mi ricordano quanto ami il prima di ogni cosa.

L' odore del muschio prima dell'acquazzone.

Il sentore di salmastro prima della burrasca.

Le nuvole viola prima del temporale.

La luce del tramonto un attimo prima di essere cancellata dalla notte.

Il profumo della neve prima che  avvolga ogni cosa.

Le foglie appese ai rami prima della caduta. 

Un' inattesa schiarita prima dell'arcobaleno.

Il corpo in tensione prima di una danza.

La paura prima di un esame.

Le prove prima di uno spettacolo.

La musica prima di essere suonata.

Il batticuore prima del primo bacio.

Il desiderio prima dell'amore.

Il sentirsi mamma prima di avere un figlio.

Le poesie immaginate prima di essere inghiottite dalla banalità delle parole.


domenica 1 agosto 2021

L'insostenibile leggerezza dei no vax


Non sono un’estremista, non sono una fondamentalista. Sono una persona pratica che come vocazione e scelta di vita si prefigge di risolvere i problemi senza girarci troppo attorno. Di ogni aspetto o questione analizzo i pro e i contro perché gli schieramenti tout-court mi stanno stretti. Inoltre, da attitudine giornalistica, mi documento, leggo, studio, cerco di farmi un’opinione il più possibile obiettiva, perché penso che nessuno abbia in tasca la verità, quella piccola cosa preziosa che tutti con grande presunzione pensano di avere a portata di mano come lo smartphone, ma che solitamente sta nel mezzo se non altrove, oltre le nostre capacità di comprensione.

In questi mesi, ormai dobbiamo purtroppo dire anni, ho riflettuto e studiato molto su quello che sta accadendo a livello mondiale da quando il termine PANDEMIA è entrato prepotentemente nelle nostre vite prendendo il sopravvento su ogni notizia e azione del vivere civile, condizionando le nostre esistenze dentro un sistema di regole che limitano libertà che ritenevamo acquisite.

Quello che fino al 2019/20 pensavamo si potesse definire “libertà” ha assunto da un mese all’altro sfumature diverse obbligandoci prima in casa, poi solo in cortile, poi solo al caffè preso fuori dai bar, fino ad un ritorno a una pseudo normalità estiva, senza certezze sul domani. 

Il lockdown generalizzato ha paralizzato le società di tutto il mondo provocando una crisi economica senza precedenti che gli esperti paragonano a quella dell'ultimo dopo guerra e che si protrarrà per lungo tempo, anche perché il capitalismo e lo sfruttamento cinico delle risorse stanno impoverendo il pianeta destinandolo ad altre pandemie e prospettandoci scenari drammatici.

Mentre ci lamentavamo a voce alta per le rinunce che imponevano coprifuoco, chiusure di attività, di vita sociale, la morte della cultura e degli spettacoli dal vivo, la fine di tutto quello che avevamo conosciuto fino a quel momento, c’era chi moriva, chi dentro le terapie intensive combatteva per ogni respiro senza sapere quale sarebbe stato l’ultimo, chi, negli ospedali, lavorava strenuamente per limitare i danni provocati dal Covid, chi chiuso nelle case di riposo o nelle rsa viveva in penosa solitudine interminabili e tristissimi giorni, chi non poteva andare a scuola e godere con pienezza della sua esistenza di bambino, adolescente, ragazzo.

Per paura di morire abbiamo sospeso le nostre esistenze e ne abbiamo sofferto lamentandoci e arrabbiandoci perché ritenevamo ingiusto un sistema di regole tanto rigido e costrittivo, mai conosciuto prima. Qualcuno per consolarsi sbandierava l’inutile: ne usciremo migliori; altri come me pensavano che non saremmo che peggiorati e che il fondo lo avremmo toccato presto perdendo per strada dignità, decoro e valori.

Poi sono arrivati i vaccini, benedetti da alcuni e osteggiati pervicacemente da altri, in genere da chi non crede nella scienza ed è poco avvezzo a quello che sono le procedure di chi lavora e testa farmaci e salvavita. Essendo cresciuta in una famiglia piuttosto istruita, con un padre di fede illuminista e profondo promotore della scienza e della medicina, non ho mai avuto nulla da eccepire sui vaccini c’erano, ci sono, li abbiamo subiti quando eravamo piccoli e le informazioni in merito non esistevano e grazie ad essi molte malattie pericolosissime sono state definitivamente debellate. Credo, inoltre, che la scienza - in senso filosofico e non solo - sia molto più intelligente e democratica dei tanti post che chiunque improvvisa sui social. Infine, per mia formazione positivista, faccio fatica a vedere complotti in ogni dove. Non escludo comunque che buona parte di ciò che ci è stato raccontato in questo tempo ansioso sia stato gonfiato dalla volgarità dei media, come sono abbastanza convinta che questo tipo di virus non abbia origini naturali ma sia scaturito da esperimenti di laboratorio, non necessariamente fatti a scopo aggressivo.

Quindi, per evitare di incorrere nelle tifoserie che odio con tutta me stessa, su un tema tanto difficile da comprendere con i pochi strumenti e le poche conoscenze che ho a disposizione non essendo io né una scienziata, né una virologa o infettivologa, ho scelto di affidarmi a ciò che vedo e a ciò che l'esperienza personale mi ha permesso di sapere, andando oltre il solito dualismo in cui amiamo socialmente dividerci. 

Ho conosciuto famiglie distrutte che hanno perso i loro cari a causa del Sars-Cov 19, così come ho ascoltato testimonianze di persone, anche giovani, che sono uscite traumatizzate dal ricovero in terapia intensiva dove ogni giorno e ogni notte sentivano e vedevano morire un vicino di letto e tra un respiro stentato e l’altro - aggrappandosi disperatamente a quel poco di ossigeno che il virus e la polmonite bilaterale gli concedevano di assorbire - trascorrevano il tempo chiedendosi quando sarebbe stato il loro turno. Di esempi relativi ad esperienze e conoscenze dirette ne potrei elencare a decine, ma mi fermo qui. 

Questi semplici dati, dovuti a un’osservazione priva di pregiudizi, mi hanno convinta della gravità di una patologia che a seconda dell’ospite può distruggere non solo i polmoni ma l’intero sistema cardiovascolare creando in molti casi problemi per tutta la vita. Cazzate? Può darsi ma le lacrime di chi ha perso un genitore, un marito, un figlio durante questi anni terribili per me meritano rispetto e valgono più di qualsiasi altra ipotesi fantasiosa su Bill Gates, il 5G, la sterilizzazione di massa, la dittatura sanitaria e varie. 

In aprile, nonostante mille precauzioni e zero vita sociale ho contratto il Covid in forma leggera con un po’ di tosse, una notte di febbre e tanto mal di testa.  Mi è andata bene perché sono un soggetto a rischio. La malattia, dopo aver fatto l'iter e le procedure previste, mi ha consentito e mi consente tuttora - grazie al certificato di avvenuta guarigione - di entrare in casa di riposo dove mia mamma molto anziana è ospite da qualche anno, portarla a passeggiare o a prendere un caffè sulla sua sedia a rotelle, guardare insieme il mare e trascorrere del tempo con lei, dopo tanta distanza, tante lacrime da parte mia e tanto dispiacere. Ho fatto di tutto per avere il Green Pass (non è facile ottenerlo se non si è stati vaccinati) e sono felice di questa opportunità. Era un mio diritto, ma ho lottato per averlo e l’ho fatto per amore di mia madre, non di certo per andare al cinema!

Se non avessi avuto il Covid, non avrei comunque esitato un attimo a fare il vaccino o frequenti tamponi pur di stare accanto a una donna di quasi 95 anni, che ogni giorno perde qualcosa della persona che era, che è stanca di trascinarsi in una quotidianità che non accetta perché non poter camminare è umiliante e doloroso, e che si avvicina velocemente alla fine del suo passaggio su questa terra. 

Se mi dicessero che per vederla e poterla abbracciare devo farmi inoculare sei-otto-dieci dosi di vaccino di ogni genere oltre a berne un flacone, lo farei perché sono fermamente convinta che ci siano cose più “alte” e significative delle nostre idee su questo o quello e della tutela ad oltranza del "nostro bene" individuale. Penso, infatti, che la nostra vita debba essere guidata da scelte d’amore e non da paure, miserie ed egoismi. 

Il club degli eletti non mi piace.Vivo in una collettività e voglio farne parte. La società crudele, cinica e imbrogliona impone carte verdi, vaccinazioni e tamponi? Si. 

Sono d’accordo? No, ma per regalare un sorriso e un abbraccio alla persona che mi ha dato la vita sono disposta a tutto e non mi sfiora alcun dubbio. Lo stesso farei per le altre persone che amo. Family First! 

Tutto questo per dire che le polemiche, le prese di posizione, le guerre puniche, quelle persiane e le crociate mi annoiano a morte perché per me hanno senso solo quando non si hanno responsabilità o non se ne vogliono assumere. Credere di essere talmente “sacri” e “inviolabili” da bypassare qualsiasi regola e sentimento mi sembra un atteggiamento da persone prive di empatia. Lo stesso per chi, in nome di un ipotetico - ribadisco ipotetico - “complotto” rinuncia a fare felice qualcuno.

Certo, se non ci fossero le regole, se non ci fossero i confini, se non ci fossero i direttori sanitari, se non ci fossero e i presidenti del consiglio, se non ci fossero i presidenti della repubblica, se non ci fossero le istituzioni europee, se non ci fossero i virologi, se non ci fossero i medici, se non ci fossero i detestati politici e le carte verdi tutto sarebbe più bello e più facile, ma così non è e con i SE, i MA, i PERO’ non si va da nessuna parte, si resta fermi in un punto a guardare il mondo che corre veloce con tutte le sue problematiche e i suoi dubbi.

Per me l’amore illumina ogni cosa e vince su tutto e se per amore di mia mamma (non della discoteca o del ristorante) dovrò, allo scadere del Green Pass dei guariti, farmi vaccinare per poterla incontrare e regalarle gli ultimi sprazzi di gioia lo farò, trattenendo il respiro, cercando di non pensare alle "reazioni avverse", tenendo per me ogni timore, ma orgogliosamente fiera delle mie priorità. 

La paura e il senso di inviolabilità lo lascio agli altri, a quelli che sanno tutto, che hanno capito tutto, che sono al di sopra di tutto, ma fuori da ogni principio di realtà. 

Lo lascio a chi può permettersi leggerezza. Io non posso. E' un lusso che non mi concedo perché ho il dovere morale e la responsabilità di essere presente, di fornire delle risposte, di elargire abbracci e sicurezze. 

Mi si definirà ingenua o condizionata dall'ingranaggio dei "poteri forti" che ci sottometteranno a schiavi e muto gregge. Può essere, ma a me non interessa. Io vado oltre. Non mi crogiolo nello stagno delle ipotesi, non mi abbandono a vaghe certezze. Non mi aggrappo e vecchie e nuove profezie. Volto le pagine, sfoglio i capitoli di questo fuggevole presente, apro le braccia e accolgo questo tempo nuovo, talmente innamorata di una piccola donna con gli occhi tristi da non riuscire a vedere altro. 

E questo, oggi, è tutto ciò che conta.










lunedì 26 ottobre 2020

Guerra, sorrisi e pandemia


Emilio e Iole 



I miei genitori la guerra l'hanno subita e combattuta. 


Mio padre partendo volontario in Marina a 18 anni e restando sulle navi come radiotelegrafista per 12 anni: una giovane vita "regalata" alle armi in anni di grande formazione. 

Mia mamma, con la sua famiglia, dopo aver subito ogni genere di soprusi nella loro attività di piccoli commercianti, aveva dovuto raccogliere le sue cose e trasferirsi da Torino a Casale Monferrato in un'ala di un convento di suore. Il termine esatto, a quei tempi, era "sfollati".


Sempre mia mamma mi raccontava - e ancora mi racconta - delle paure dei bombardamenti e del fatto che lei e mio nonno si rifiutassero di scendere in cantina insieme alla nonna e alle altre sorelle e fratelli perché non volevano "morire come topi".


Tutto questo per dire che noi umani siamo in grado di superare tutto e ritrovare il sorriso nonostante i traumi e le tragedie, purché si possano coltivare sogni, speranze, progetti. 


Il tempo in cui viviamo sembra però privo di quella luce di speranza perché in tutto questo benessere che i nostri genitori e nonni ci hanno regalato - anche a costo della vita - abbiamo perso l'anima, le radici, l'essenza primaria dell'essere umano che non è e non può essere solo materiale e spicciolo, ma deve necessariamente coltivare la spiritualità e la comunione con la divina natura. 


Quindi, se non la finiamo di devastare il Pianeta a nostro piacimento e a fini meramente economici; se non iniziamo da adesso e per sempre a rispettare indistintamente tutti gli esseri viventi, non ci saranno giorni migliori e i temibili virus (così come altre calamità) cavalcheranno invisibili e senza sosta i cieli, i mari, la terra, sopra e sotto le nostre teste, dentro e fuori di noi, pronti ad ogni nostro errore ad emettere il loro soffio letale. 


Allora si che saranno problemi! Perché se non si cambia rotta, tutto questo, non sarà che la prima delle Pandemie del terzo millennio.


Facciamo dell'amore, della compassione e del rispetto della natura la nostra unica guida nell'oscurità. Facciamolo per le generazioni passate che hanno sofferto e lottato anche per noi.

Facciamolo per quelle future. 

La Terra, così bella e generosa, merita il nostro rispetto.



giovedì 4 giugno 2020

PAROLE PER TE




Parole per i tuoi occhi dentro ai quali intuisco oceani di pensieri.

Parole per le tue incertezze ben celate.

Parole per i tuoi entusiasmi: un cluster di note, un assolo di chitarra, una voce emozionante, un arrangiamento, un concerto, un viaggio, un libro.

Parole per il tuo dolcissimo sorriso.

Parole mute per rispettare le porte sbarrate dei tuoi silenzi.

Parole per la tua manina che stringevo nel buio della notte, prima del sonno o camminando vicini.

Parole per la tua mano forte che ora stringe la mia facendomi sentire al sicuro.

Parole per quell'accorgerci reciproco di "qualcosa che non va", quando nei nostri sguardi corrono veloci un'ombra o un punto interrogativo.

Parole per tutto l'impegno, la dedizione alla Musica, l'entusiasmo, la gioia, le illusioni, i sogni e le disillusioni di questi anni.

Parole per le tue note che sempre mi addolciscono il cuore.

Parole per le tue canzoni, mio balsamo e mia cura.

Parole per la tua anima bella e per quella speciale delicatezza fatta di osservazione e di ascolto che sarà sempre la tua forza.

Parole per ringraziare di avermi scelta in questo viaggio privilegiato che è la vita. 

Parole per il tempo che mi hai regalato fino a qui.

Parole di speranza per un futuro pieno di luce. 

Parole di buon augurio.

Parole di una madre per un figlio, totalmente prive dell'obbligo di obiettività. 

Buon Compleanno Samuele! 

In questi meravigliosi 22 anni hai ricevuto molti doni.

Fai della gratitudine la prima delle tue bandiere. 










venerdì 15 maggio 2020

la bellezza della fragilità: addio a Ezio Bosso

Un mio articolo per FareMusic-FMD

http://faremusic.it/2020/05/15/la-bellezza-della-fragilita-addio-a-ezio-bosso/?fbclid=IwAR24a9XpD6WH01KExhEZk6PH17HljlA74zrhob65iSF0dwinLmtZgRPUjuI

lunedì 30 dicembre 2019

Porte e porti aperti

Le porte, come i porti, vanno aperte e non chiuse.
Regaliamoci un 2020 sotto il segno della solidarietà, dell'accoglienza, dell'amicizia, dell'empatia.



lunedì 4 novembre 2019

Quando abbraccio Nina



Quando abbraccio Nina non abbraccio un cane, abbraccio l'Universo e mi commuovo.
La cagnolina che si affida, che ha fiducia nella mano amica dell’uomo e che si addormenta in un abbraccio d’amore, mi porta in dono tutta se stessa ma anche valori dimenticati, emozioni arcaiche, un’energia soprannaturale e nello stesso tempo naturalissima.
Quando accarezzo Nina accarezzo la vita, il calore del suo corpo e un’energia primordiale. Quando accarezzo Nina accarezzo il suo cuore che batte veloce, il respiro pesante e le zampe gioiose sempre pronte a correre, giocare e partire.
Amorevole e dolcissima, Nina mi porta in dono memorie di vite passate, di esistenze dimenticate; mi racconta la vita dell’uomo nelle caverne, quando dopo essere riuscito ad addomesticare i lupi, entrambi si sono sentiti più forti e meno soli: io ti accudisco, ti nutro e ti scaldo; tu mi proteggi e mi difendi. Un sodalizio perfetto basato sulla fiducia reciproca e sull'amore contraccambiato. 
Quando abbraccio Nina il mio respiro si placa, diventa profondo e semplice come il suo, senza affanni. Insieme a lei riscopro parte della mia natura selvaggia e in quell'abbraccio così vero mi addormento, senza più né anni né tempo, perché danziamo insieme la danza cosmica di questo pazzo pianeta.




sabato 7 settembre 2019

CHIAMATEMI EVA


Questo breve racconto, finalista al Premio Letterario Nazionale IL SALMASTRO 2019, nasce senza troppe riflessioni, di getto.
Solo più tardi ho capito che questa inspiegabile urgenza aveva radici lontane. Inconsapevolmente ho voluto rendere omaggio ad una coppia di amici dei miei genitori - gente di spettacolo - che da bambina, incontro dopo incontro, vedevo magicamente trasformarsi da uomini a donne senza avere ben chiaro di cosa si trattasse. 
Mamma e papà mi avevano insegnato a non fare domande e ad accettare gli amici per quello che erano. Nel loro caso, persone divertenti, amorevoli, creative, affettuose, le prime ad avermi regalato un anellino d'oro con un'acquamarina che conservo ancora gelosamente. 
Grazie loro e ai miei, ho imparato molto presto a non giudicare le persone dall'aspetto e men che meno dai loro desideri sessuali. Franco, Renè, ovunque voi siate questa è per voi.





I ricordi d’infanzia sono angoscianti, dolorosi. Sento ancora in bocca il gusto di sale delle mie lacrime, quando papà mi sorprendeva a giocare di nascosto con le bambole e mi guardava con disprezzo.
Mi piacevano le scarpette rosse di vernice. Le ammiravo incantato nelle vetrine. Le desideravo.
Mio padre non capiva, mia madre faceva finta di nulla: <<E’ l’età, passerà>>. Ma non passava. Non era una malattia della crescita e non era il capriccio di un bimbo annoiato, era un modo di vedere la vita, più colorato, più indefinito, con pochi muscoli e più poesia.
Mi portavano a calcio per fare di me un maschio sportivo, coraggioso e forte, ma io mi sentivo estraneo a quel mondo di corse e cadute, di ginocchia sbucciate, di scarpe scomode, di sporco d’erba sui calzettoni, di fango e sudore, di pacche sulle spalle, di sputi e parolacce. A me piaceva ballare, cantare, suonare, disegnare. E più di tutto mi piacevano le Barbie di mia sorella Sonia, di 2 anni più grande di me.

Era Carnevale. Avevo quasi 5 anni. Chiesi a mamma di comprarmi un vestito rosa da fatina con tanto di cappello e bacchetta magica. Ero serissimo. Lei mi derise. Chiuso in casa lontano da occhi estranei, quando papà e mamma erano al lavoro, potevo finalmente giocare a modo mio. Sonia, infatti, mi permetteva il travestimento e si divertiva a truccarmi. Era la sola a prendermi per quello che ero: un bambolotto imperfetto, un po’ clown, un po’ femminuccia; il fratello tenero, strano, divertente. Lei mi guardava, io volteggiavo libero nel salotto sognando di danzare nel parco di una grande villa con un bel principe azzurro. Erano momenti spensierati, immediatamente cancellati dall’eterno disagio di sentirmi diverso.

Ieri ho compiuto 20 anni. Ho un corpo e un documento nuovo. Ho raggiunto buona parte dei miei caparbi obiettivi, ma la mia infanzia repressa e ferita mi scorre ancora nelle arterie: a volte è un turbinio veloce; a volte si muove a rallentatore e mi regala ricordi faticosi di giornate turbolente e pensieri disperati. Ero una bimba imprigionata in un corpo sbagliato.
Nei lunghi pomeriggi invernali mi divertivo a cucire maldestramente abiti improvvisati utilizzando stoffe che trovavo in casa. Mi piacevano i cartoni animati con le eroine femminili, volevo ardentemente assomigliare a loro. E mentre la vita dei miei compagni di scuola si svolgeva nelle vie del quartiere tra oratorio, campo da calcio e giochi in giardino, la mia era chiusa e misteriosa perché soltanto a casa mi sentivo al sicuro e protetto dai miei travestimenti.

Mi sarebbe piaciuto portare i capelli lunghi. Ricordo con disgusto il profumo aspro e pungente del dopobarba del salone da barbiere dove mio padre mi portava. <<Ora si che sei un uomo>>, mi diceva con aria beffarda al termine del rito sacrificale della mia amata capigliatura.
A 12 anni ho capito che vivere non poteva essere una continua messa in scena. La ragazza che era in me reclamava spazio, chiedeva di uscire, non poteva più essere ignorata.
Svegliarmi ogni giorno con i pensieri ingabbiati in un corpo che non amavo era un tormento senza fine. Detestavo le mie mani, la mia bocca, l’appariscente pomo d’Adamo sulla linea mediana del collo. Il pene mi creava imbarazzo. Mi sentivo smarrito. Temevo quel corpo che ogni giorno, a dispetto della mia volontà, cambiava un po’: la peluria sotto il mento, sul petto e sulle braccia, la voce bassa, i brufoli. A 15 anni, dopo l’ennesima notte insonne, mi sono fatto coraggio e ho scritto ai miei:

Cari mamma e papà,
Scrivo perché guardandovi negli occhi non riuscirei a dirvi cos’ho nel cuore.
15 anni fa avete messo al mondo una creatura sbagliata. Nel ragazzo che giorno dopo giorno si sta trasformando in un uomo, batte un cuore di fanciulla pieno di poesia, di delicatezza, d’amore.
Sogno di chiamarmi Eva, sogno d’indossare abiti femminili, sogno una voce aggraziata, sogno unghie smaltate, sogno d’innamorarmi, sogno l’abbraccio caldo di un fidanzato.
So che non era nei vostri progetti, ma nemmeno nei miei. Ho provato a non deludervi. Mi sono sforzato di essere il maschio che volevate: ho giocato a calcio, ai giochi violenti della playstation, ho accettato di portare il taglio corto a spazzola gradito a papà. Tutto questo per voi e per rispettare un “genere” non mio. Ora basta. E’ giunto il momento di dirvi che in me, da sempre, dimora e scalpita una ragazza pronta ad uscire da una prigione che si fa ogni giorno più stretta. Vi prego ascoltatela; ascoltatemi. Sto soffrendo, sto soffocando. Se davvero mi amate, aiutatemi.

Per i miei, quella confessione accorata, lucida e definitiva è stata una doccia gelata.
Dopo il primo momento di smarrimento mia madre ha iniziato a guardarmi in modo diverso, con la compassione di chi guarda un parente affetto da una grave e incurabile malattia. Da mio padre, solo silenzio e disprezzo nonostante la mia infanzia e la mia adolescenza fossero trascorse nel disperato tentativo di essere il figlio che lui tanto desiderava e che gli avrebbe fatto brillare gli occhi dalla felicità.
Con riluttanza e goffaggine avevo provato a fare ciò che voleva. Mi sentivo come se avessi recitato per anni un copione scritto da lui, mentre la vera me sopravviveva a stento chiusa in una stanza priva d’aria, maleodorante e buia. L’odore di putrido che mi sentivo addosso mi dava il voltastomaco. Era finalmente arrivato il momento di fare ordine, di mettere le pedine al loro posto. Per non impazzire dovevo per forza far capire ai miei che era indispensabile che la mia anima di ragazza e il mio aspetto esteriore coincidessero. Lo specchio non doveva più essere un nemico.

Sorpreso da tanto coraggio, ho iniziato a raccontare a mamma il desiderio incontenibile di uscire da quel corpo che odiavo. Ero un fiume in piena. Abbracciandola stretta, rosso per la vergogna, con la testa bassa e gli occhi pieni di lacrime, le ho raccontato di quante volte avevo odiato me stesso, di quante volte a scuola mi avevano preso in giro e picchiato chiamandomi frocio, di quante volte mi ero emozionato solo per essermi seduto accanto ad un compagno carino.
A cuore aperto e senza più freni le ho parlato dell’invidia che provavo per mia sorella, per le mie compagne, per i loro capelli, per i loro vestiti, per i fiocchi colorati, per il rimmel, per il lucidalabbra, per il loro profumo. E infine: di quante volte ero andato a dormire augurandomi di svegliarmi finalmente donna. Di quegli anni bui ricordo che pregavo ogni sera chiedendo il miracolo a Dio.

Mentre i miei coetanei si dedicavano ai giochi di sempre, chiuso nella mia stanza davanti al computer, ho iniziato a fare ricerche scoprendo che non ero solo io l’anomalia, lo sbaglio, il tumore. E’ stato allora che ho chiesto a mia madre di accompagnarmi da uno psicologo. Lei, convinta che mi aiutasse a superare il momento di confusione e mi riportasse alla “normalità”, ha accettato. Ero felice. Volevo con tutto me stesso che il dottore mi capisse e fosse mio complice nel dare voce e corpo alla ragazza che portavo nel cuore. Scoprii che la mia anomalia aveva un nome: “disforia di genere”, termine inventato per dare valenza scientifica alle anime incarnate in corpi sbagliati. A me l’unica cosa che interessava era di non dover più essere costretta in una prigione. Volevo nascere, volevo le ali, volevo volare.

Il cammino per raggiungermi l’ho iniziato con la terapia ormonale grazie alla quale i miei lineamenti si sono addolciti, la voce è diventata più femminile, i capelli folti e lucidi, i fianchi arrotondati. Il passo successivo è stato dare spazio al seno, non esagerato, non volgare. Ero un fiore. Ero una giovane donna pronta a sbocciare.
Grazie alla chirurgia ho iniziato a riconoscermi e a indossare abiti e magliette attillate. L’ultimo passaggio, il più difficile e doloroso ma anche il più desiderato, è stato il cambio definitivo di sesso e il riconoscimento legale di una nuova identità.
Da Luca a Eva il cammino è stato lungo, irto e fitto di rovi. Nei documenti bisognerebbe poter scrivere il nostro doloroso iter, per portare sempre con noi l’orgogliosa testimonianza di come siamo arrivati a quel sesso tanto desiderato. Tutti dovrebbero sapere quanto coraggio, quanta fatica e forza d’animo ci costa la Trans-izione.
Il passo più duro per me è stato la conquista della verità perché raccontare agli altri chi fossi realmente era uno scoglio difficile da superare. Dovevo scoprirmi, svelarmi al mondo. La parola Trans evoca sempre pregiudizi, ironia, emarginazione, come se si trattasse di un capriccio.
A furia di farmaci, assistenza psicologica e chirurgia diventiamo le donne e gli uomini che portavamo nel cuore sin dai primi vagiti. Per giungere a quel porto navighiamo a lungo in mare aperto, senza timone, senza bussola e sempre in balìa della tempesta ormonale, sociale, esistenziale.
Provare a trascinare i miei genitori nel mio mondo non è stato facile, ma io non potevo continuare a mentire. Il corpo di Luca non era un corpo: era un involucro, una gabbia stretta, una prigione senza via di fuga. Mi sentivo un alieno. Il momento più bello della mia giornata di adolescente era addormentarmi sperando di non svegliarmi più.

Per 20 anni sono stato Luca, costretto in abiti non miei. Finalmente sono rinata e ho scelto il nome della prima donna sulla terra, il più bello. Chiamatemi così: chiamatemi Eva.
Se penso a quel bambino che correva in casa con le scarpe e gli abiti di mamma per sembrare una principessa, che si appartava a piangere perché non si sentiva capito, che inventava scuse per non andare a scuola dove lo ridicolizzavano, mi viene ancora da piangere. Le ferite profonde bruciano e sono sempre pronte a riaprirsi. Ci vuole tanta forza per diventare ciò che si è.
Gli psicologi hanno cercato di capire i retroscena della mia natura, ma cosa c’era da capire? Per me era tutto chiaro: volevo, dovevo, essere una donna. Pur prigioniera in un corpo maschile, io quella ragazza la vedevo. Era lì, appoggiata al davanzale dei miei occhi che mi sorrideva fiduciosa, che mi aspettava. Allo specchio ne vedevo la luce ed era la mia stella polare, la mia cometa. Lei voleva sbocciare, mi chiedeva il coraggio di aprire un varco e raggiungerla. Era una presenza scomoda, inquietante, seducente, vera. In quell’altalena di emozioni, la trasformazione - o meglio la “correzione” - era diventata urgente e necessaria. 

Il rapporto difficile con la famiglia mi ha sempre fatto sentire sbagliato. Fino a qui, sensi di colpa, inadeguatezza, vergogna hanno costellato ogni istante della mia esistenza. A 12 anni, in un momento di grande sconforto, decisi di farla finita. Mi chiusi in bagno e con una lametta di mio padre provai a tagliarmi i polsi. Non ci riuscii, avevo paura del dolore e mi sentii fallito. Ero arrabbiato con mia madre che non capiva i miei sentimenti, il mio disagio. Mi sentivo sottovalutato, incompreso, deriso. Volevo punirla, volevo che soffrisse. Pensavo: una madre non dovrebbe accogliere il figlio così come viene, con altruismo e senza giudizio? In un mondo di maschi e femmine chi sono quelli che, come me, stanno in mezzo? Hanno diritto alla vita o devono morire?

Il cambiamento, la Trans-izione, non è solo quella che ci porta ad avere un fisico femminile (o maschile nel caso di donne che si sentono uomini) ma passa anche e soprattutto per le piccole gioie quotidiane, per i gesti d’amore come l’accettazione incondizionata da parte di chi dice di volerci bene. Diventare se stesse a 20 anni è un traguardo emozionante, una gioia immensa.
Raggiungersi, a 20 anni, significa rinascere, riconoscersi, ritrovarsi, piacersi, indossare raggiante i primi tacchi rossi di vernice e imparare a camminare, a testa alta, con un incedere nuovo.






Alle donne vittime di mariti violenti posso solo dire: SALVATEVI!

Penso che ogni giorno dell'anno dovremmo ricordare le donne che subiscono violenza. Da figlia di una donna che di botte ne ha ...